Era qualche cosa in più di un’amica (non pensate male, nessuna implicazione carnale, piuttosto una affinità di pensiero su tante cose, ligusticità allo stato puro, gusto per l’ironia e una buona dose di distaccato coinvolgimento dalla realtà, quasi entomologi con le zanzare), anche se ci si sentiva di rado, spesso ad orari improponibili, alba per qualcuno, fine serata per altri. Marina Murialdo era una persona speciale, da un certo punto di vista solare, ma con una fragilità interiore, forse per la sua grande sensibilità. Uno schermo, la sua luce, per nascondere i suoi angoli bui (non nel senso di peccato, piuttosto delle sue paure), i suoi timori, la sua voglia di dimostrare all’adorato padre Franco di essere all’altezza.
Lo sei stata, Marina, quando a bordo del tuo Ciao bianco (e poi su uno scooterino) giravi come una matta per il parco acquatico che portava la tua firma, un modo umano per controllare che tutto andasse bene. Ora che non ci sei più, con il corpo, non con lo spirito, faccio mente locale: non c’è una persona che abbia lavorato con te che non ti abbia voluto bene, per un Capo (si, C maiuscola) che amava gli indiani (i pellerossa, intendo) è un fatto non banale, ne saresti fiera. Le Caravelle, la creatura che avevi sognato, così come avevi sognato e realizzato il porticciolo Poseidon a Borghetto (per non parlare del porticciolo di Ceriale che la burocrazia ti ha negato), sono frutto del tuo entusiasmo, caparbietà, intelligenza. Cose che non ti hanno fatto dimenticare lo spirito goliardico, travestita da dama rapita dai saraceni o simpatica protagonista di cene e feste. Ricordo, Carevelle appena aperte, le feste organizzate con La Stampa, la fine delle feste, quando in pochi si rimaneva a far baldoria ballando, fradici, di acqua e di whisky, sulla pista del cantadoccia. Eravamo giovani, avevamo sogni, volevamo promuovere questa terra ligustica, purtroppo incapace di seguire chi aveva entusiasmo ed idee. Ciao Marina, ti ho visto e ti ho parlato l’ultima volta, casualmente, in ospedale (non per l’incidente che ti ha portato via) e, ancora una volta, avevi dimostrato la tua generosità: avevi un gamba rotta (o un piede, non ricordo bene) ed eri nel letto vicino ad una persona a me cara. Eri stata tu a rassicurarmi: “Se ha bisogno ti chiamo”. Non ti ho più sentita, ma te lo dico adesso: Grazie, ti voglio bene, Amica.
Vecchio cronista alla Stampa, mai saggio…