Qualche giorno fa, per pura casualità, ho scoperto che l’amico Domenico Rapa, è il nipote di un personaggio mitico della storia di Genova: Francesco Guano detto “Checco”, figlio di Ettore “Toro” Guano, il mitico oste della Trattoria il Toro che ha sfamato generazioni di camalli, studenti, professionisti alla ricerca della vera cucina genovese. Ho chiesto a Domenico di scrivere un ricordo dello zio e della sua mitica trattoria sotto la Lanterna. Ecco il suo contributo dove la storia e i personaggi della trattoria si mescolano, inevitabilmente, con i sentimenti.
Parlare della Trattoria del Toro è come evocare uno degli angoli più tipici della Genova di una volta, nella “San Pier d’Arena” che non esiste più, alla Coscia dietro alla Lanterna, vicino al monte di San Benigno dal quale ora prende il nome il nuovo quartiere direzionale, sorto sulle rovine dei palazzi che affacciavano su via De Marini, la trattoria da un lato al numero 49 rosso e vicino una stalla per cavalli, lo stabilimento dell’olio Dante della famiglia Costa e il saponificio dall’altro, “una straduccia squallida da” Fronte del porto” come scrisse Renato Cenni, uno dei tanti giornalisti che hanno decantato i profumi delle pietanze offerte in quella trattoria.
Io ricordo quando agli inizi degli anni cinquanta mio cugino Franco mi portò a vedere i cosiddetti “orti di guerra” che lui e i suoi amici avevano ricavato setacciando le rovine dei fabbricati demoliti dalle bombe degli aerei amici, per mettere il terriccio così ottenuto dentro il perimetro delle stanze ove ognuno dei ragazzi della Coscia aveva fatto il suo orticello col basilico, per il pesto, i pomodori per il cundiun, i cetrioli e i meloni.
Lui e Mariarosa sono i due figli di Francesco Guano detto “Checco” che con le sorelle Gemma e Emma erano i figli di un personaggio mitico, Guano Ettore il “Toro” perché ne aveva la forza ed aveva il pugno proibito, dicevano anche che avesse abbattuto un minaccioso toro con un pugno, aspettandone la carica a gambe ferme, e aggiungevano che con tre dita piegasse in due le monete di rame (le famose “palanche”, i “doggiuin” con il profilo di re Umberto I); uomo di carattere mite, se però c’era ‘da darsi’ non si tirava indietro e vinceva sia a pugni che a braccio di ferro e a testate quindi fu spesso soggetto a sfide di primato con i camalli ed altri dal mestiere da forzuti, tipo “mi, me vorrieva dâme con vöscià”; venivano da molto lontano per battersi con Ettore “di buxé”; il soprannome derivava dal fatto che i Guano fossero stati di mestiere, all’epoca di Napoleone, archibugieri, armaioli che fabbricavano o riparavano tale tipo di armi. Il Toro era amico anche di uno scaricatore del porto nativo di Nervi che impersonò Maciste in alcuni films. Tanti sono gli aneddoti su Ettore Guano detto “il Toro” come quello che si raccontava di lui che, appassionato di cavalli, aveva una cavallina sarda che un giorno ruppe i finimenti che la legavano al calesse col quale lui stava andando a Prà per comprare “i gianchetti” da servire a tavola, cosicché quando la rintracciò le diede un manrovescio così forte da farla stramazzare per terra. Il personaggio fu questo e altro ancora e da lui prese il nome la ‘locanda del Toro’, dove il viandante poteva dormire, mangiare e cambiare cavallo; dove anche le diligenze facevano tappa ristoro e stallaggio; ricordo che ancora negli anni cinquanta c’erano vestigia di questa attività e al piano superiore della Trattoria oltre alle stanze abitate dallo zio Checco, altre erano occupate da sua sorella Gemma con i figli Carlo e Clelia, uno giocatore di pallone che arrivò a giocare nella Juventus, l’altra ginnasta olimpionica, e altre stanze abitate anche da amici come il Signor Marconi o il signor Comini, massaggiatore della Sampdoria.
E qui è doveroso parlare della squadra, antagonista del più blasonato Genoa. “Checco” figlio del “Toro” fu uno dei promotori della fusione il 12.8.1946 tra Andrea Doria e Sampierdarenese per fondare la Sampdoria. Sulle pareti delle sale e salette della trattoria vi erano appese le foto di tutte le formazioni della Sampdoria e io ricordo di aver conosciuto alcuni dei giocatori, come Bernasconi, Vicini, Vincenzi e Nacka Skoglund quando andavano a mettersi in forma, mangiando. Voglio anche accennare a un ricordo che mi è caro: una volta mio zio Checco mi disse: “vieni, andiamo a Milano a San Siro a vedere la partita; finì .Milan 2 Samp 3. Campionato 1961/62. Che gioia, e fu così che divenni Sampdoriano.
Parliamo di lui, del Checco il re della “sbira” fatta con il centopelli, la parte più pregiata della trippa e non solo, dello “stocco” stoccafisso accomodato, marca Ragno con le due pinne della testa voltate in su, della “buridda” di seppie e piselli, piatti leggeri e profumati come tutta la cucina ligure e di tante altre cose fatte come una volta, del minestrone al pesto così denso che il mestolo restava dritto, del bollito misto e poi del “giancu e neigru”, piatto antico fatto di interiora di agnello ed anche dello stufato sempre d’agnello.
La trattoria era quella di una volta, vi si arrivava da una strada lunga e stretta, Via De Marini,con fuori una vecchia insegna e entrati dentro, per andare a sedersi nelle sale, si doveva oltrepassare la cucina, fatta all’antica in muratura rivestita di piastrelle bianche, con sportelli per cuocere a carbone, “u furegò”, con sopra tegami e casseruole, e sempre una pentola di brodo bollente e fumante, dalla parte opposta un bancone di marmo bianco per la preparazione degli intingoli e in mezzo c’era solo lui a dirigere l’orchestra, gli ingredienti erano sempre gli stessi dell’antica trattoria del Toro, lui Checco ci metteva il cuore dentro e cuoceva da re; anche il marchese Gavotti, accademico della”Cucina italiana” fu tra i frequentatori ed in epoca più recente Bruno Lauzi, Johnny Dorelli e Paolo Villaggio,che in una serie di articoli scritti per il Secolo XIX ne ebbe a tessere gli elogi come prima di lui Giuseppe Majocchi lo ha ricordato sul “Gazzettino Sampierdarenese” trattando delle vecchie trattorie di Sampierdarena dove fa cenno ad altri piatti tipici: lo “zemin” di ceci, le lasagne e li gnocchi al pesto e come secondi: arrosto con insalata e patate, salamini e fagiolane, rognone trifolato e naturalmente cose di mare, pesci, molluschi e crostacei che i pescatori gli portavano già al mattino presto.
Nella stanza attigua alla cucina una donna preparava il pesto, sempre fresco, schiacciando le foglie di basilico di Prà in un grosso mortaio di marmo bianco, era la Luigina, così mi sembra che si chiamasse, che lavorava ininterrottamente fino al pomeriggio. La moglie del Checco, la zia Maria sorella di mio padre, era “la regina dei friti” e dei “frisceui”, fatti con ogni verdura, e dei ripieni come le foglie di lattuga ripiene e messe a cuocere nel brodo profumato; per finire preparava il”latte dolce” crema soda tagliata a losanghe, impanata e fritta. Quanti ricordi di cose buone, di calore umano, dove ognuno si sentiva a casa sua tra uno sfottò e un altro, dove si parlava solo genovese. Il conto si pagava all’uscita, al volo, dove quello del meno abbiente era sempre il meno caro, passando a fianco di un vecchio banco bar e assaporando un whisky Antiquary o Glen Grant. Prima di concludere si deve ancora ricordare che nei due ampi saloni e nella saletta il mobilio era quello di una volta con lunghi tavoloni il cui legno rigato dall’uso ed era coperto da tovaglie bianche e vi sedevano, man mano entravano, i commensali: carrettieri, impiegati, armatori o un grosso industriale, l’operaio, il camionista, il camallo e don Andrea Gallo, quello della Garaventa; alla sera trovavi attori, sportivi, cantanti, gente della Genova bene. E mi ricordo anche di chi serviva a tavola, Silvio che la prima volta aveva 12 anni, Giuseppe e Mario, fratelli.
Sento grande nostalgia per quell’ambiente, per quelle persone conosciute, per quell’uomo cosi pieno di umanità, che non faceva pagare chi non poteva, il Checco.
Domenico Rapa
Vecchio cronista alla Stampa, mai saggio…