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L’ultima (al momento) follia di Meinero: riportare l’allevamento dei bachi da seta in Val Bormida

Una ne pensa, ma nel contempo 100 ne fa. Gianpietro Meinero, pensionato (?), fiduciario della Condotta Slow Food della Val Bormida, è un vulcano di idee e iniziative per la valorizzazione della biodiversità. Ha salvato, valorizzato, trasformato in economia la Zucca di Rocchetta di cengio, ha riscoperto e fatto riscoprire il moco, antico cereale valbormidese, il “pisello odoroso” (lo so, ha un nome che fa sorridere, ma si chiama così, ed è anche buono…), ed oggi si lancia in una nuova avventura: valorizzare il gelso, albero un tempo diffuso perchè serviva a nutrire i bachi da seta. Lui non lo dice, ma il sogno è far ritornare l’allevamento di bachi per riportare la produzione di seta nella valle. Follia? certo, ma senza follia e visione il telefono sarebbe ancora appeso al muro di casa e, per parlare con un utente di un’altra regione (se non provincia) si dovrebbe ancora passare dalle signorine della Teti (Sip per i più giovani, ma ormai vecchietti anche loro). Il post è un po’ lungo, ma interessante.

 

Spiega Gianpietro: “Gran parte dell’attività che la Condotta Slow Food delle Valli della Bormida ha svolto in questi 15 anni è stata nel nome della conservazione e valorizzazione della biodiversità che rappresenta il perno centrale della sua politica a difesa dei beni comuni. Una biodiversità strettamente legata all’agricoltura e al cibo, un insieme di culture, tradizioni e saperi che appartengono al nostro territorio, tramandate di generazione in generazione. A questi saperi, e alla cultura che li sottende, abbiamo sempre fatto riferimento nella costruzione di progetti che hanno trovato realizzazione sul territorio. Così è stato per Il Mercato della Terra, la Zucca di Rocchetta, il Moco delle Valli della Bormida , e per le antiche varietà di mele della valle. In prossimità del Congresso siamo chiamati a sviluppare ulteriormente questa azione, e a questo proposito vi invitiamo a leggere i documenti preparati in particolare nel nostro caso sulla biodiversità”.

Prosegue: “Venendo nel concreto sulla situazione contingente, è stata delineata una nuova iniziativa quella di riportare sul territorio il Mù ovvero il gelso nero (Morus nigra). Abbiamo già prodotto e inviato alla Regione e al Comune la documentazione per inserire un esemplare radicato a Cengio nell’elenco degli alberi monumentali nazionali. L’età di questo Gelso che ha una circonferenza di 420 cm è presumibilmente di oltre un secolo, (probabilmente due) da fine 1800 fino agli anni 30/40 del 1900, il Gelso era coltivato sia per il frutto che per la produzione di foglie per l’allevamento dei bachi da seta, attività molto diffusa in Valle Bormida. Merita riportare cosa raccontava Padre Isola nell’opera “Carcare e le scuole Pie” (1897), i Carcaresi erano abili coltivatori, ognuno di essi possedeva almeno un piccolo appartamento e un podere nel quale, oltre alle tradizionali coltivazioni (grano,viti,ortaggi e alberi da frutto), si dedicava anche alla coltura del gelso per l’allevamento del baco da seta, dalla cui vendita si ricavavano buone somme di denaro, sufficienti per affermare che a Carcare la povertà era ai più “del tutto sconosciuta”. A Cengio e nei paesi a valle , Saliceto , Monesiglio nei primi del 1900 era diffusa la coltura del Gelso proprio per l’allevamento del baco da seta e proprio a Monesiglio era allocata una “filanda” nata da un piccolo laboratorio nel 1850 e chiusa 70 anni fa”.

Conclude: “Testimonianze confermano che l’esemplare in oggetto faceva parte di una diffusa presenza di Gelsi coltivati in questa zona che per la sua collocazione è al riparo da venti freddi essendo posizionata a ridosso dei calanchi e rocce di Cengio Alto. Ancora oggi, nel periodo di maturazione dei frutti, vi è un notevole afflusso di persone a raccogliere i frutti. Il secondo step (indipendentemente dal riconoscimento a meno dell’albero segnalato come albero monumentale) prevede la possibilità di far adottare nel nostro territorio (un po’ come è stato per le mele antiche) delle nuove piante di Gelso nero. L’obiettivo intanto è quello di richiamare l’attenzione , far mettere a dimora un buon numero possibile di piantine di Gelso e già questo sarebbe un buon risultato per la difesa della biodiversità e la storia locale e avere nei prossimi anni nuovi Gelsi anche per i frutti. Non sappiamo se da questa nostra nuova iniziativa scaturirà lo stimolo per reintrodurre il baco da seta, cosa che in Italia si sta già sperimentando , intanto ci portiamo avanti , piantando i Gelsi…In occasione del decimo MelaDay di sabato 14 marzo, edizione che sarà “celebrativa” con il report statistico, fotografie, schede pomologiche, le marze e vie dicendo, presenteremo l’iniziativa con la possibilità di “adottare” le prime piantine di Gelso”.

Note storiche sui Gelsi e sulla bachicoltura in Val Bormida

A cura di Alessandro Marenco*

“Gelso e baco da seta sono indissolubili. La bachicoltura pare sia nata in Cina da tempi immemorabili. Fin da subito fu chiaro ai detentori dell’arte serica quanto fosse necessario mantenere il segreto. Anche gli antichi romani conoscevano la seta, ma non ne conoscevano la tecnologia. Non per niente la via di comunicazione più antica, tra la Cina e l’Europa è detta ancora oggi: “Via della seta”. Pare che siano stati alcuni monaci a sottrarre qualche baco e portarlo a Costantinopoli, intorno al VI secolo d.c. e da lì poi si sarebbero diffusi, insieme alla tecnologia, per tutto il continente. Il settentrione d’Italia ha dato i terreni e le condizioni migliori per sviluppare la produzione e il commercio della miglior seta. Il declino della seta e dunque del gelso, indispensabile per allevare i bachi, inizia tra le due guerre e si conclude con l’arrivo delle fibre sintetiche. Oggi, con la riscoperta del naturale e del biologico, si è risvegliato un interesse sempre più forte per una produzione che ha grandi potenzialità di sviluppo, senza avere un grave impatto sull’ambiente, portando arricchimento del territorio con la biodiversità e la partecipazione attiva in pratiche colturali e dunque culturali.

L’allevamento del baco ha lasciato alcuni detti che val la pena ricordare. In dialetto: “Se i bigatti fan ben, as mariuma l’an chi ven”, che vuol dire: “Se i bachi da seta renderanno sufficientemente, l’anno prossimo ci sposiamo”. Quasi come una promessa di matrimonio che il moroso fa alla morosa, o alla sua famiglia, per rassicurare, e dire che se le cose vanno bene si possono intraprendere progetti importanti. Tutto dipende da come andrà quell’investimento, quanto frutteranno i bachi da seta.

Alla fine dell’Ottocento, il celebre agronomo Giuseppe Antonio Ottavi, sosteneva in un suo scritto che un gelso con i bachi valeva quanto una vacca. Consideriamo anche che il gelso, oltre alla foglia per il baco, dona delle ottime more (bianche o nere) e un poco di rami di potatura. Le nostre nonne erano incaricate di far schiudere i bachi, e dunque di mantenerli in un luogo sicuro e al caldo. Quindi ponevano la bustina con le uova in seno, ben protetti e a temperatura costante. Si usa dire ad un lavorante sfaccendato: “Dormi della quarta”, o “Dormi della grossa” proprio perché questa è una peculiarità dei bachi da seta, che s’inerpicano sui rami disposti a spalliera sulle lettiere e dormono per ben quattro volte, una per ogni muta, finendo appunto con l’imbozzolamento.

Primo Levi, nel racconto “Idrogeno”, presente in “Il sistema periodico”, riporta una consuetudine dei contadini del Piemonte settentrionale, allevatori di bachi e coltivatori di gelsi: quando il baco era gonfio di seta e pronto a imbozzolarsi, veniva brutalmente spezzato in due. Dai due tronconi così divisi si generava un filo di seta grosso e resistente che veniva utilizzato dai pescatori come ottima lenza. Questa è più una suggestione, diciamo un argomento da approfondire, un ambito di ricerca… A Saliceto ci sono gli affreschi di Sant’Agostino, databili intorno alla fine del Quattrocento. In una scena in particolare vediamo un uomo chino sulla Bormida, pescare con la canna.

Niente di strano, se non fosse che nel Quattrocento (e per qualche secolo ancora) non erano ancora apparse quelle fibre sintetiche così appropriate per pescare a canna. Dunque c’è una possibilità che quello di Saliceto sia (oltre a una delle prime rappresentazioni di un pescatore con la sua canna) un coltivatore di bachi che sfrutta la seta come lenza. Ipotesi sostenuta anche dalla presenza, alle sue spalle, di una coltivazione di gelsi. Chabrol sostiene che la bachicoltura sia giunta in Piemonte nel XII secolo. I gelsi servono da confine tra le proprietà. I più grandi arrivano a produrre 6 q.li di foglie.

Si propaga per talea o da seme. Dopo la raccolta delle foglie la pianta va potata. 150 kg di foglie di gelso forniscono 100 kg di bozzoli (proporzione variabile secondo le annate). Nel circondario di Montenotte (che comprendeva Acqui, Ceva, Savona e Porto Maurizio) si producevano (a fine Settecento, nel momento migliore) circa 500 tonnellate di bozzoli. La rendita e la qualità della produzione dei bozzoli dipende essenzialmente dalla qualità delle foglie di gelso che vengono somministrate. I danni maggiori sono causati dalla variazione improvvisa della temperatura: tanto il freddo che il caldo sono nemici del baco. Si dice che basti un tuono molto forte a far smettere di filare i bachi”.

  • Alessandro Marenco, Scrittore, ha lavorato nell’industria chimica. Ha scritto romanzi e brevi saggi di storia locale, con un interesse particolare per la storia dell’alimentazione, la storia della scuola, la storia dell’agricoltura.

 

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Stefano Pezzini
Vecchio cronista alla Stampa, mai saggio...