Ad Aurigo, entroterra di Imperia, vive un matto, che, per fortuna è un mio amico: Domenico Rainisio. Lo conosco da tanti anni, è il fratello di una cara amica, ad Albenga, lui qualche anno più vecchio di me, in sella ad una Ducati scrambler, io su Piaggio Ciao, ma questa è un’altra storia.
Perché è matto? Aldilà dell’essere stato designato eroe dell’olivicoltura estrema ad alta quota da Olio Officina, la Bibbia dell’olio extravergine di oliva, Domenico è stato per tanti anni un albergatore ed ora, che si gode la meritata pensione, è tornato al paesello (che non ha mai veramente lasciato), per diventare “O Rei” della olivicoltura. La sua Goccia di Aurigo, un olio eccellente, che lascia veramente a bocca aperta, è qualche cosa di più di un condimento, di un grasso da usare in cucina. È storia, è cultura, tradizione e sapienza. A cominciare da scatola e bottiglia, dedicata a chi scrive, e di questo lo ringrazio, proseguendo con le schede di degustazione: i sentori, mandorle, bosco, more, i colori, giallo oro opalescente appena accarezzato da riflessi di verde, al sapore che rimanda a mandorla, carciofo, pinoli, mora e che in qualche modo racchiude il confine con il bosco. Nel suggestivo depliant che accompagna l’olio anche un tocco di modernità, c’è Google map, che dice dove le olive usate per la confezione sono state raccolte, in posizione XY, ad una quota di 582 metri sul livello del mare, oliveto di 120 piante. Insomma, una vera carta d’identità dell’olio che si va a degustare. Racconta Domenico: “Trattandosi di un prodotto diverso, si appoggia ad una differenziazione che non fa riferimento ad una identificazione geografica, ma alla specificità della cultivar e dell’ambiente di origine. L’olio di alta quota è un olio oggettivamente superiore, è il simbolo della rinascita di un territorio, usarlo e valorizzare la specificità dello stesso”. Coltivare l’ulivo in alta quota sembra quasi un segno del riscatto di una comunità umana che aveva perduto il senso della propria identità e va incontro alla nuova coscienza civica del consumatore. La raccolta, un tempo (non che oggi sia molto diverso) era del tutto manuale ed iniziava il giorno dopo la festa di Sant’Andrea, il 30 novembre. Certe volte, in anni particolari, durava fino alla fine di maggio, quando ormai le piante iniziarono nuovamente a fiorire. A quel tempo si diceva che l’olivo fruttificava un anno si è un anno no, anno di carica, anno di scarica (del resto, per gli anziani, ancora oggi l’olivo in Liguria è “l’albero della fame”). Il terreno era sempre arato o zappato, veniva spianato con l’erpice, u bastassu, o con la tavola, “a toa”, che erano trainati da un mulo, un bue, un asino, oppure quando non si avevano animali, a mano, con una zappetta a forma rettangolare, “a rascetta”. Una volta un cm di terreno era molto importante e se non c’era accordo sui confini o per altre controversie, si doveva ricorrere al conciliatore, “u concliatù”, un giudice di pace nominato dal Comune per cercare di trovare un accordo tra le parti. Racconta ancora Domenico: “Si iniziava raccogliendo per prima le olive cadute sulle mulattiere o stradoni, tutte acciottolate, ma sempre tenute pulite per evitare di perdere il prodotto, che inevitabilmente poteva essere calpestato, per passare poi alle “rene”, i piccoli sentieri dove avevano diritto di passaggio i confinanti e per finire si raccoglieva il confine delimitato dell’Orlo, che non era altro che segnare chiaramente la proprietà dove le olive cadevano per terra. La bacchiatura iniziava sempre dagli alberi isolati, qua e là “spaiai”, per poi abbacchiare le strade e piccoli rii, “i Beeti”, e continuare con i terreni più esposti, o meno carichi. A volte, quando l’annata era di carica, e le olive non erano tanto grosse, verso gennaio e febbraio, a metà della campagna olearia, si andava a scrollare “sequà” e con il bastone si dava qualche colpo con il trapelin, per far cadere le olive più grosse e mature, ma si lasciava sull’albero ancora più del 50% delle olive che dovevano maturare e crescere. In prima fila alla raccolta c’erano le donne, che essendo sempre accucciate per la raccolta, usavano sia un Cavagnolo, canestro che conteneva mezza quarta, circa 6 kg, sia una sorta di borsetta legata alla vita, detta a sacchetta, che serviva perlopiù per raccogliere le olive nei terreni più difficili per faticare meno. Dopo L’abbacchiamento, alla sera, si doveva, prima di ritornare a casa, raccogliere olive e tende, separare le foglie del frutto e per far ciò si usava una tenda a modo di sacco, steso tra due alberi, sostenuta da una corda, i contadini messi in controvento e posti ad una distanza di circa 10 m con l’utilizzo di una Sassua, un grosso cucchiaio di legno con il manico corto lavorato per non scivolar via della mano, prendevano foglie e olive e le lanciarono sulla tenda: per differenza di peso le foglie si fermavano prima, e le olive arrivavano sulla tenda. Il trasporto veniva effettuato a spalla per l’uomo e sulla testa per le donne, o con l’utilizzo di muli, somari o buoi, dove la portata massima per viaggio non superava mai i due sacchi, e ognuno conteneva al massimo cinque quarti, misura utilizzata per quantificare le olive, un peso equivalente a 12,5 kg ed era chiamata assuma dal più peso appunto di 120 140 kg.Arrivati a casa si terminava la pulizia tra le foglie le olive, utilizzando la chitarra, una the fogli attrice manuali in legno, formata da una griglia superiore per una prima selezione del prodotto, ed è una serie di listelli distanziati di pochi millimetri, a forma triangolare, per permettere le foglie di cadere prima delle olive. Negli Anni ‘50 chi viveva in campagna cercava di sfruttare i frutti al massimo, per cui le olive che non venivano utilizzate per fare olio da consumare in famiglia e non venivano frante, cioè macinate, verso sera passavano casa per casa i cataui, che compravano le olive per i frantoiani dei paesi vicini della valle e cercavano di avere il prodotto ad un buon prezzo contrattando in base alla qualità delle olive. Oggi chi coltiva le olive in alta quota è perché ha ereditato dei propri genitori uliveti ultra centenari e con passione e fatica porta avanti le tradizioni di famiglia. Non è molto diversa da quella che si faceva nel passato“.
Vecchio cronista alla Stampa, mai saggio…